Era il lontano 2003 quando l’Oms decise di istituire una giornata nazionale per la prevenzione del Suicidio (meglio tardi che mai cit.).
Ma perché è stato deciso di “istituzionalizzare” un tema così importante?
Forse perché il problema ci riporta alla memoria ‘a livella del compianto principe de Curtis?
L’estremo gesto – di fatti – non opera distinzioni nè per genere, nè per levatura culturale, nè per sanità mentale e nemmeno per età degli individui ma può bussare alla porta di ognuno di noi.
Di fronte al gesto autolesionistico le reazioni dei sopravvissuti sono quasi sempre le stesse, sgomento, incomprensione, senso di colpa per non aver potuto fare qualcosa per evitarlo.
L’American Psychiatric Association nell’ultimo Dsm V annovera il “suicidio” quale fattore di rischio correlato ad una numerosa serie di disturbi (personalità, comportamento, etc.) segnalando – di fatto – ai professionisti la necessità di indagare in sede diagnostica o terapeutica l’eventuale pericolo.
Verrebbe da chiedersi – però – quanti siano effettivamente disposti e/o ad intraprendere un percorso terapeutico.
Tralasciando il contesto clinico, soprattutto per evitare che un argomento così delicato possa trascendere nella polemica, ci si dovrebbe chiedere se è davvero possibile fare qualcosa prima che accada.
La risposta a questa domanda non è semplice, perché la sofferenza ingenerata da una data problematica e/o disturbo nell’individuo fa scaturire in esso una sofferenza tale da indurlo a ricercare la serenità nella morte.
Cercando di inquadrare meglio il motivo della scelta si potrebbe sostenere che l’individuo soffre così tanto fino a maturare la consapevolezza che – per quanto estrema – la morte possa essere il minore dei mali.
Risulta quasi impossibile e lontanamente immaginabile quanto questo fardello possa essere “grave” per chi decide di “farla finita” ma si potrebbe intervenire prima che questa scelta diventi così radicata?
Anche a questa domanda non è possibile fornire una risposta certa, forse perché bisognerebbe interrogare una parte dell’Io con la quale (spesso) molti non sono in comunicazione forse per la mancanza di strumenti per operare il “colloquio interiore” o magari per la fragilità della stessa personalità.
Probabilmente qualcosa si potrebbe fare, cercando di entrare con discrezione in quel periodo di “rimurginazione” magari con gesti spontanei o con una semplice parola. Sono sempre più diffusi i gruppi di auto mutuo aiuto che avvicinano gli aspiranti suicidi attraverso il potente strumento della condivisione.
L’auspicio è che questo argomento sia sempre meno tabù e sempre più dibattuto perché è attraverso la condivisione dell’informazione che si può demolire il senso di solitudine che accomuna molti suicidi.
Non bisogna dimenticare – poi – che molti episodi riguardano le donne e gli uomini in divisa, a tal riguardo l’Osservatorio Suicidi in Divisa riporta la tragica conta di chi ha scelto di porre fine alla propria esistenza (al 7 settembre sono 38).
Il Sibas in questo anno di vita ha cercato di contribuire attivamente alla sensibilizzazione della popolazione sul tema con webinar, simposi e – non ultimo – l’incontro con l’autrice del coraggioso testo “IL BUIO SOTTO LA DIVISA” – Sara Lucaroni.
L’impegno del Sibas continua attraverso la costruzione di una “rete di cura nazionale” fatta di terapeuti Sistemici-Relazionali, Cognitivi Comportamentali, EMDR perché anche una semplice goccia in un oceano può fare la differenza.

Ricco Emiddio – Dirigente Nazionale Sibas – area Psicologia

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